Un look da Charles Jeffrey Loverboy – London Fashion Week Giugno 2020

Pro e Contro della Fashion Week digitale: una breve analisi

Sulla piattaforma digitale gestita dal British Fashion Council, la London Digital Fashion Week (tenutasi dal 12 al 14 giugno) è stata la prima in Europa ad aprire la strada al formato interamente digitale e sarà presto seguita da Parigi (9-13 luglio) e da Milano (14-17 luglio).
 
Dato il carattere innovativo di questo nuovo modo di intendere la Fashion Week, sperimentazione è stata la sua parola d’ordine; se lo stimolo creativo e l’originalità non sono mancati, la London Digital Fashion Week è stata però ben lontana dalla fashion week a cui eravamo abituati, con le modelle che sfilavano in passerella, il fermento nei backstage e il lavoro incessante di make-up e hair stylist, le spettacolari scene e set di luci, i fotografi e la calca di celebrità e invitati; lo street style fuori dalle sfilate.
 
Come tutti sappiamo, il Coronavirus ha messo fine ad ogni assembramento fisico e introdotto divieti di viaggio e misure di distanziamento sociale, rendendo impossibile lo svolgersi di qualunque sfilata; i brand si sono ritrovati a dover trovare nuovi altri modi per raccontare le loro storie, utilizzando la piattaforma digitale di londonfashionweek.co.uk come alternativa parallela alle grandi location di lusso. Il formato digitale ha spinto i brand a cercare modalità di comunicazione più profonda nei confronti dei propri consumatori (e non) di tutto il mondo.
Il risultato è stata una piattaforma dalla home page simile a quella di Netflix, dove il calendario ufficiale presentava circa 20 brand al giorno – quelli che avrebbero normalmente sfilato o tenuto una presentazione – rivelando prodotti inediti o già esistenti a specifici intervalli di tempo, oltre ad ulteriori informazioni e contenuti creativi relativi ai designers, link agli showroom digitali, siti e-commerce, interviste ai designers, o ancora, libri, cortometraggi, letture di poesie o playlists musicali.
 
Il lato negativo: non si è trattata di una settimana della Moda in senso stretto. Con pochi capi di abbigliamento in vista, sono mancati quel senso di urgenza, le alte aspettative e l’attesa che si percepiscono all’inizio di una sfilata vera e propria. Con molti brand ancora alle prese con le negative conseguenze economiche dovute all’epidemia, solo alcune delle collezioni mostrate hanno presentato nuovi design. L’attenzione si è spostata quindi su qualunque modalità che ciascun designer avesse potuto scegliere per esprimere al meglio l’identità del brand: un mood, una retrospettiva, un insight.
In breve: tutte cose legate ai contenuti immateriali della comunicazione di un brand, un campo che finora è rimasto strettamente legato alla strategia di promozione pubblicitaria della moda.
 
D’altra parte, se questa London Fashion Week ha visto l’assenza di molti dei più importanti designers di stanza a Londra (come Burberry, Victoria Beckham, Vivienne Westwood e Christopher Kane), essa ha lasciato spazio e ampie possibilità di espressione e visibilità a moltissimi giovani brand e talenti (come le prospettive originali degli studenti della Central Saint Martins e dell’Università di Westminster, Louise Gray e la sua libertà di espressione, il tecno-futurismo di Xander Zhou, ecc), offrendoci input altamente creativi e linguaggi artistici differenti da quelli che i grandi brand utilizzano solitamente per esprimere il proprio carattere.
 
Hanno preso parte in modo centrale anche le cause sociali: Charles Jeffrey Loverboy ha ospitato un artista di colore per un’esibizione alla sua dance party sabato sera, servita a raccogliere fondi per il UK Black Pride. Bianca Saunders ha messo in luce alcune delle questioni contemporanee più controverse, quali l’identità di genere e i diritti della comunità di colore, tramite il magazine We Are One of The Same. O ancora, Osman Yousefzada ha presentato uno short movie, Her dreams are Bigger, dando voce ad alcune cucitrici del Bangladesh mentre si immaginano le persone sconosciute per le quali cuciono i capi, enfatizzando la differenza delle culture nelle diverse parti del mondo, e la differenza dei sogni che le persone, a diverse latitudini possono permettersi di nutrire.
 
Quali sono stati , quindi, effettivamente i vantaggi della London Digital Fashion Week?
Sicuramente, la London Fashion Week ha permesso un aumento della visibilità, essendo il suo formato accessibile a chiunque, dando modo di partecipare ad un segmento di persone molto più ampio. Questo si potrebbe tradurre in una maggiore possibilità per i brand di rinforzarsi sul fronte del retail – seppur nella prospettiva più ottimistica- o meglio, di migliorare la comunicazione e la relazione tra brand e clienti finali, in un contesto pesantemente compromesso dalla crisi globale, e vendere direttamente ai consumatori tramite le trasmissioni live in streaming.
 
Ha decisamente fornito un palcoscenico più democratico – specialmente ai brand più giovani e di minori dimensioni, spesso limitati dalla mancanza di risorse economiche per esprimere elevate energie creative – per farsi conoscere nella vasta industria della moda e avere la loro voce in capitolo.
 
In fatto di Sostenibilità, il formato digitale – non richiedendo alcun km aereo da percorrere ed emissioni di gas serra drasticamente ridotti – ha reso la London Digital Fashion Week notevolmente eco-friendly. Ma, se è presto per dire che la sostenibilità sia alla portata di tutti, è anche vero che sempre più brand stanno facendo la loro parte, raccogliendo la sfida di un design più responsabile: dai brand che intendono produrre nuovi capi a partire dagli scarti (Marques’Almeida, Mariah Esa, Robyn Lynch, tra gli altri) ai creativi impegnati nel proporre collezioni seasonless, magari con materiali già esistenti (Raeburn, Preen by Thornton Bregazzi). La London Fashion Week ha messo in luce alcuni dei fatti che riguardano la moda sostenibile al giorno d’oggi: che quest’ultima sembra essere disponibile in versioni uniche o in edizioni limitate; che spesso è ancora un’opzione parallela alle linee principali dei marchi di abbigliamento; ed è prevalentemente un prodotto altamente artigianale, che richiede dunque elevate risorse in termini di tempo, energie e mezzi economici, almeno per il momento.
Sembrerebbe scontato affermare che la Sostenilibità si trova ancora ad uno stadio iniziale, quasi di livello sperimentale, che è predisposta a crescere a livelli più industriali e meccanizzati in un futuro prossimo, come ben si spera, per convertire quello che è oggi un lusso prodotto in edizione limitata ad una moda più democratica e più diffusa; un bene per tutti, ma anche, soprattutto, per il pianeta.

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