MalaikaRaiss Spring/Summer 2021, Copenhagen Fashion Week
HOPE Spring/Summer 2021, Copenhagen Fashion Week
Mark Kenly Domino Tan Spring/Summer 2021, Copenhagen Fashion Week
Designers Remix Spring/Summer 2021, Copenhagen Fashion Week

Le collezioni Primavera/Estate 2021. Oltre la sostenibilità materica

Gettando uno sguardo sulla Copenhagen Fashion Week, ci si rende conto fin dal primo impatto che la sostenibilità è il fulcro delle sfide contemporanee. Se la questione spesso si risolve nella limitazione delle emissioni e nella scelta di nuovi tessuti, la capitale danese della moda è prova che la vera sostenibilità è qualcosa d’altro; in particolar modo si nutre della necessità di ripensare non solo il come produciamo, ma anche il perchè.
Puntando a diventare la prima settimana della moda etica al mondo, Copenhagen è stata, difatti, la prima ad introdurre requisiti sostenibili cui i brand si devono attenere per poter comparire nel calendario ufficiale delle sfilate. Per la precisione, entro il 2023, in programma vi sono almeno 17 norme di carattere etico che tutti i fashion designers e brand devono rispettare al fine di poter sfilare durante la Fashion Week danese.
Risulta scontato, pertanto, precisare che tutti i brand esibitisi dal 9 al 12 agosto 2020 sulla piattaforma digitale CPHFW72 hanno fatto leva sull’utilizzo di materiali responsabili, ma più di tutto, si sono rivelati essere altamente consapevoli degli attuali tumulti sociali e ambientali, e ne hanno voluto dare una propria risposta.
Percepito come opportunità per andare incontro ad un’ulteriore crescita e sviluppo positivo, il problema Covid-19 e le sue conseguenze, in tal senso, ha offerto l’occasione per accelerare i cambiamenti da tempo necessari all’interno dell’industria della moda.

Occorre trovare il modo di convivere con il problema“, afferma la co-fondatrice di Union of Concerned Researchers in Fashion e professoressa Kate Fletcher, in dialogo con Moussa Mchangama – fondatore di In Futurum -, citando la scienziata e filosofa Donna Haraway: la moda ha bisogno di essere consapevole degli stimoli negativi agenti intorno ad essa; prendersi il giusto tempo per valutare che le strutture in cui agisce siano quelle idonee, e infine imboccare la giusta direzione. Questo implica una presa di decisioni coraggiose, anche se queste possono essere talvolta scomode: “Tutto ciò comporterà inevitabilmente notevoli difficoltà, e perfino scelte dolorose, ma anche enormi opportunità che al momento non possiamo nemmeno immaginare“.

I cambiamenti positivi devono essere applicati nella struttura intrinseca dello stesso sistema moda da un punto di vista prevalentemente etico. Si tratta del “behind the brand”, nuovo leitmotiv sotto scrutinio, che sta diventando per molti brand la più rilevante caratteristica da comunicare in quanto parte della propria identità, del proprio carattere, dei propri valori. Gettar luce sul “behind the brand” significa scegliere una più sana, onesta e trasparente relazione con fornitori, produttori e consumatori. Il “behind the brand” è far sentire la propria voce in una maggiore apertura all’inclusività e alla diversità, comunicare messaggi importanti tesi a demolire le convinzioni sociali tossiche all’interno della società odierna. E ancora, significa fornire al consumatore non solo un negozio di abbigliamento, ma un piccolo universo che rispecchi in pieno i suoi valori, dove poter costruire uno stile e potere individuale attraverso una libera scelta in fatto di possibilità vestimentarie. (Stine Goya, Gestuz, Rodebjer, solo per citare alcuni brand).

L’unità è il concetto che sta dietro la collezione Primavera/Estate 2021 di MalaikaRaiss, azienda di sole donne: unità è abbassare la guardia, essere insieme; unità è amore che tutto tiene insieme. Unità è accettazione dei difetti e la bellezza dentro di essi. La strategia di comunicazione del brand si sviluppa pertanto come celebrazione della diversità, che sfocia nell’inclusività, entrambe visibili anche in Holzweiler.

HOPE punta invece ad abbattere le barriere attraverso un’estetica gender-fluid: “Perchè dobbiamo vestirci in base al genere? Lo stile non ha genere ma ancora oggi, l’industria della moda non offre scelte alternative per quanto riguarda la questione“. Il direttore creativo Frida Bard vuole offrire una soluzione alle costruzioni culturali e convenzioni datate che siamo tenuti ad accettare per inerzia; ma, in quanto tali, esse possono cambiare, portando avanti più prospettive e lasciando spazio alla diversità. Denominata A new Standard, la tesi si basa sulla convinzione che non ci siano ragioni per cui i capi debbano essere decisi per genere; al contrario, prima ancora del genere, è l’espressione personale ad avere rilevanza. Non ci si deve sorprendere quindi che da HOPE ci si possa imbattere nel sistema di doppia taglia – maschile e femminile – riportato sull’etichetta di uno stesso capo di abbigliamento!

Sostenibile è anche l’approccio cosiddetto distruptive nei confronti della struttura intrinseca della moda e della sua produzione frenetica. E’ qualcosa che riguarda un nuovo schema di produzione, fondato su design di lunga durata e sul concetto di “slow fashion”, puntando a cambiare l’impostazione e la mentalità, influenzate in particolar modo negli ultimi anni dal fast fashion. Per il suo design minimalista e senza tempo, Mark Kenly Domino Tan è uno di quei brand ad aver compreso che estendere la vita di un prodotto di moda risulta cruciale per una produzione e un consumo sostenibili, e questo può essere ottenuto utilizzando materiali di qualità, che possano durare per un lungo arco di tempo con la minima cura.
Nynne mira anch’esso a trascendere le stagioni e i trend superflui, e lo fa attraverso un’ampia esplorazione di tagli, forme, volumi dal design fortemente pragmatico. Alla base, l’idea di comodità e vestibilità perfetta, che si declina in capi d’abbigliamento da tutti i giorni, funzionali ma al tempo stesso eleganti.
Sulla stessa scia, SELECTED Femme/Homme, By Malene Birger e Lovechild 1979, il cui stile, denotando una gagliarda femminilità, sprigiona un fascino senza tempo per diverse corporature.

Una soluzione a modelli di business che comportano sprechi e ad una sovrapproduzione sconsiderata è data da Rixo e Soeren Le Schmidt, che scelgono invece un approccio made-to-order, ovvero: prodotti su ordinazione. Stili e stampe vengono creati in numeri limitati di modo che non ci siano sprechi di tessuto nè immagazzinamento di scorte in deposito. Di conseguenza, il loro sistema manifatturiero risulta essere a basso impatto ambientale, includendo la limitazione dei trasporti, e permettendo al tempo stesso una maggiore personalizzazione del design per il cliente.

Il brand danese Custommade ha avviato invece un progetto denominato By Numbers, che consiste nel creare collezioni a edizione limitata, ossia capi unici nel loro genere -in quantità limitate – realizzati con rimanenze di tessuti di lusso provenienti da diverse case di moda.

Ponendo in questione il tradizionale modo di far moda, Whyred lascia al consumatore la possibilità di sperimentare il brand a “piccole dosi”, rilasciate ogni due mesi in piccole capsule-collections: queste sono ideate appositamente per determinati momenti/eventi della quatidianità del consumatore, sostituendo le tradizionali stagionalità. Rifuggire dal calendario della moda tanto insostenibile e dai ritmi frenetici permetterebbe di ritornare a creare un prodotto moda con amore e cura, e di detenere maggiore controllo su uno stesso prodotto, secondo quanto sostiene il direttore creativo Jessy Heuvelink.

Notevole è anche l’attenzione posta sull’utilizzo di materiali selezionati nell’ottica dell’industria circolare: Designers Remix fa uso di risorse già esistenti creando capi d’abbigliamento più unici che rari, chiudendo il circolo vizioso dello spreco. Dal 2002, infatti, la vena sperimentale del brand trova sfogo nel “rimescolare” e nell’upcycling di rimanenze tessili: vecchie collezioni uomo, tessuti d’arredamento e pezzi vintage vengono recuperati dando vita a spettacolari abiti per la Primavera/Estate 2021, che rivelano le loro origini con “I used to be a curtain” (lett. “Ero una tenda”), “I used to be a pillow” (“Ero un cuscino”) o “I used to be a couch” (“Ero un divano”) riportati a grandi lettere.

E se Rodebjer non possiede conoscenze all’interno dell’azienda stessa su come realizzare tessuti sostenibili, il brand sancisce collaborazioni con fornitori detentori delle competenze necessarie nel campo, per sostituire gradualmente tutti i tessuti in fibre biologiche o riciclate, favorendo abitudini di consumo consapevole e limitandone l’impatto ambientale. La collaborazione è il punto chiave anche di Remain, i cui pezzi upcycled sono creati in partnership con il brand di upclycling (di)vision di base a Copenhagen: i 7 pezzi presentati sono decostruiti al centro e riuniti con una cerniera, cosicché tutti i capi possano essere ricombinati in infinite possibilità.

In crescita è anche il business della ri-vendita, come conferma Fanny Moizant, presidente e co-fondatrice di Vestiaire Collective: piattaforma, questa, la cui missione è dare ai capi nuovi di lusso una seconda vita e renderli più accessibili, oltre ad offrire una valida alternativa in risposta alla sovrapproduzione e al consumo eccessivo.
Il consumatore è cambiato perchè l’industria è drammaticamente cambiata“, ha spiegato Moizant a Moussa Mchangama durante uno dei “Small talks big conversations” alla CPHFW. “Tutto ciò è dovuto all’influenza del fast fashion, nel corso degli anni, che ha enormemente accelerato i ritmi dell’industria. Il consumatore si ritrova così sempre teso verso la novità, verso nuovi prodotti“, da sfoggiare anche sui social media. “Abbiamo capito che il comportamento del consumatore stava producendo troppi scarti“. L’obiettivo di Vestiaire Collective è, dunque, di dare valore a questi scarti, e incoraggiare le persone al riutilizzo e ridare valore al guardaroba degli altri; a quei prodotti non più nuovi, ma che possiedono un valore e una qualità in sè stessi e che possono essere apprezzati da altre persone. Questa iniziativa intende anche incoraggiare i brand a rallentare i ritmi, e al tempo stesso a “democratizzare” la moda ad un’audience più vasta, coinvolgendo sempre più brand ad aderire al progetto di ri-vendere il vecchio.

Il progetto Reclaim di HOPE si fonda sullo stesso principio: ancora sotto sviluppo, l’idea è quella di allungare la durata della vita dei capi, rivendendo i vecchi prodotti HOPE adeguatamente riciclati come capi di seconda mano. “I nostri capi sono fatti per essere indossati per anni, con una qualità e uno stile che durano. Tuttavia – sappiamo che le cose cambiano. Il tuo stile può cambiare. Il tuo corpo anche. Ma qualcosa che hai apprezzato una volta potrebbe portare la stessa gioia a qualcun’altro in futuro“, dichiara una nota dalla maison.

La Copenhagen Fashion Week ha dimostrato di aver fatto importanti passi concreti in termini di Sostenibilità; ad aver messo sotto i riflettori le scelte più responsabili che daranno i loro risultati positivi nel tempo. E’ l’inizio di un attivo e fertile impegno in ciò che sembra uno sviluppo positivo, volto a guardare avanti nel futuro della moda. Per parafrasare ancora una volta Kate Fletcher: “Ci sono semi di cambiamento, semi di speranza, e abbiamo bisogno di coltivarli“. Fissati i propositi, le azioni significative non possono che seguire.

Vai alla piattaforma digitale di Copenhagen Fashion Week per trovare ulteriori contenuti:

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